L’ultima Gualchiera Sarda Con Cui Si Lavorava L’Orbàce 0 Comments

L’ultima Gualchiera Sarda Con Cui Si Lavorava L’Orbàce

Abbiamo incontrato nei nostri racconti sardi l’orbàce, un tessuto tipico della Sardegna, (ma anche usato in Sicilia), un panno che si ottiene mediante una caratteristica lavorazione che risale all’antichità, già usato dall’antica Roma in particolari officine, le fullonicae, per il vestiario dei soldati romani. 

Per rendere il tessuto più spesso e denso, compatto e impermeabile, si immergeva il tessuto in acqua battendolo coi piedi (saltus fullonicus), aggiungendo argilla smectica. Poi le impurità venivano eliminate lavandole con urina invecchiata, il panno asciutto veniva spazzolato con cardi o pelli di porcospino per sollevare il pelo. 

Questo processo si chiama follatura e consiste nel compattare le lane tessute attraverso il restringimento e l’infeltrimento. I piccoli spazi tra la trama e l'ordito si chiudono, perché le microscopiche squame corticali che rivestono la superficie dei peli compenetrano. In Sardegna per eliminare le impurità non ci risulta usassero l’urina ma il panno veniva invece imbevuto di acqua calda insaponata e quindi veniva esercitata con i piedi nudi una grande pressione per ottenere che le fibre si incorporassero, e quindi risciacquato con abbondante acqua corrente.

La follatura era un lavoro molto faticoso, ma già nel medioevo si costruirono le gualchiere, che in sardo viene chiamata sa cracchera, dove magli azionati dalla forza dell'acqua battevano il panno al posto dei piedi. L’origine della parola “orbàce” potrebbe essere “albagio”, nome usato per una specie di rozzo panno, oppure deriva dall’arabo al-bazz, stoffa, tela.

Si trova in Sardegna l’ultima gualchiera funzionante d’Europa, con cui si lavorava l’orbàce, la gualchiera di Tiana, a 163 km dal Gabbiano Azzurro Hotel & Suites, 2 h e 20 m di macchina, in un piccolo borgo della Barbagia. È stata restaurata e rimessa in funzione, per diventare un museo animato dove poter assistere alla lavorazione dell'orbàce, in un’immersione nell’antica storia tessile sarda. 

La gualchiera di Tiana, che sfruttava l’acqua corrente del Rio Tino, era parte primaria di una catena produttiva che interessava la comunità sarda. Da varie regioni dell’isola tutto l’anno le donne portavano a Tiana le lane tessute per essere trasformate in orbàce.

In Sardegna, interi villaggi producevano orbàce (per esempio Arbus e Gonnosfanadiga nella provincia del Sud Sardegna) che era il tessuto, nero o grigio perché tinto, più usato per l’abito tradizionale maschile. Erano in orbàce i gabbani, grandi cappotti lunghi fino ai piedi spaccati di dietro per cavalcare; la diffusa gabbanella, piccolo cappotto per estate e inverno, perché difendeva sia dal caldo che dal freddo; is ragas, specie di gonnellino; i borzachinos, calzari allacciati al polpaccio; il copricapo (sa berritta) a forma di sacco. 

Importante per i pastori era il saccu de coberri (sacco per coprire), due pezzi di stoffa d'orbàce nero, applicato l'uno sull'altro, uniti da un lato, per ripararsi dalla pioggia e dal freddo, nel quale i pastori si avviluppavano nelle notti invernali.  Era cappotto, coperta da letto, stuoia, tappeto, d'inverno e d'estate, sempre e ovunque.

 

“Il piccolo Anania seguiva quasi sempre il suo amico e fratello Zuanne dalle grandi orecchie: entrambi costantemente scalzi, con ghette e giubboncino di orbàce, lunghi e sudici calzoni di grossa tela, berretto di pelo di montone”. (Grazia Deledda - Cenere)

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di Daniela Toti

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